Il mio maestro |
Erich FrommLa vita Erich Fromm nacque a Francoforte il 23 marzo 1900 in una famiglia di origine ebraica che contava molti rabbini forse già dal XVII secolo. La sua educazione intellettuale avvenne quindi all'insegna della tradizione ebraica. Egli ricorderà il padre, commerciante di vini contro voglia, come un uomo nevrotico, ossessivo e pauroso. A lui riconobbe però il merito di avergli trasmesso una completa indifferenza verso il denaro e la logica mercantile. I tragici eventi della prima guerra mondiale acuirono la sensibilità del futuro studioso, costringendolo a prendere coscienza di alcuni problemi di psicologia sociale sui quali in seguito si sarebbe soffermato a lungo. Il bisogno di spiegarsi il motivo per cui «uomini che non si conoscono e che non si sono fatti nulla» possano uccidersi reciprocamente lo spinse ad approfondire gli studi di filosofia e psicoanalisi. A influenzarlo furono alcune delle personalità di maggiore spicco della cultura otto-novecentesca: in primo luogo Karl Marx e Sigmund Freud, ma anche Johann J. Bachofen e Georg Groddek. Nel 1922 si laureò in filosofia presso l'Università di Heidelberg. Si iscrisse quindi all'Istituto di psicoanalisi di Berlino dove venne analizzato da Hans Sachs e dove seguì le lezioni di alcuni dei più famosi esponenti del movimento freudiano, tra i quali Theodor Reik. Nel 1926 incominciò a esercitare la professione. Nel 1934, all'inizio delle persecuzioni razziali, abbandonò, insieme ad altri intellettuali e scienziati ebraici, la Germania per rifugiarsi negli Stati Uniti, dove compose quasi tutte le sue opere. Qui insegnò in varie università, fra le quali la Columbia, la Yale, la New York University. Nel 1955 fu chiamato a dirigere il dipartimento di psicoanalisi dell'Università Nazionale di Città del Messico. Con Karen Horney e Harry Stack Sullivan si distinse in questo periodo come uno dei principali esponenti di quell'indirizzo «culturalista» che riuniva i freudiani revisionisti, protesi a sottolineare l'influenza dei fattori sociali nella formazione della personalità umana. In Europa Fromm tornò, anziano, dopo avere lasciato l'insegnamento. Gli ultimi dieci anni della sua vita li trascorse nella Svizzera italiana, dove fra l'altro, si erano ritirate altre figure di rilievo della cultura tedesca: Hermann Hesse, Horkeimer, Erich Maria Remarque, Karl Lövith. Come dimora scelse un silenzioso condominio a Muralto, presso Locarno, di fronte al lago Maggiore. Malato di cuore fin dalla giovane età, tra tanti disagi fisici (negli ultimi anni camminava con fatica) continuò a condurre la sua intensa attività di studioso dimostrandosi disponibile al confronto delle idee e sempre impegnato a riflettere sui fatti della contemporaneità. Colpito da crisi cardiaca, muore il 18 marzo 1980, pochi giorni prima di compiere ottant'anni. L'anno precedente gli era stata conferita la cittadinanza svizzera. Temi e opere del pensiero frommianoA una visione complessiva la vasta opera di Erich Fromm appare volta anzitutto a indagare i rapporti che nella storia umana si stabiliscono in maniera reciproca fra le tendenze inconsce e quelle sociali. Oggetto costante di ricerca è per lui la dialettica individuo-società, che indaga mettendo in atto una ampia serie di riferimenti culturali e con una non comune capacità di sintesi intellettuale. La sua attività prende avvio nell'ambito della Scuola di Francoforte: Fromm presenta però tratti propri che lo distinguono in maniera spiccata dagli altri esponenti della scuola con i quali pure ha in comune la formazione intellettuale e la convinzione che ci si debba muovere da una teoria critica della società capitalistica. Egli è un ricercatore di frontiera che opera combinando quanto di maggiormente vitale trova nelle più diverse correnti di cultura. Decisivo rimane tuttavia il rapporto con Freud, rapporto che lui stesso ha chiarito in un libro famoso uscito in Italia nel 1979, Grandezza e limiti del pensiero di Freud. In esso egli ribadisce l'importanza storica delle scoperte freudiane, vedendo nella teoria dell'inconscio il merito fondamentale del padre della psicoanalisi. Proprio tale teoria permette in effetti di indagare in modo scientifico l'insieme delle emozioni e delle passioni umane che in precedenza erano appannaggio della filosofia, della letteratura, della religione. Come altri eretici, Fromm ridimensiona però il peso della libido e prende nel contempo le distanze da taluni degli elementi centrali del pensiero freudiano, primo fra tutti la teoria del complesso edipico. Tale strappo all'ortodossia gli costò l'aspra critica di Marcuse e di tanti intellettuali ed esponenti della sinistra che lo accusarono di svuotare la psicoanalisi del suo contenuto rivoluzionario. La perlustrazione delle costanti della «natura umana» per Fromm è destinata a risultare parziale se insieme non si indagano anche le condizioni oggettive in cui l'Io va maturandosi. E' questo il tema centrale di Marx e Freud (1962). Più che il teorico e l'annunciatore della società socialista futura, Fromm scorge in Marx il fertile critico delle strutture della società occidentale presente. D'altra parte egli si avvicina a Marx spinto da una sorta di tensione religiosa che percorre l'intera sua attività e che è alimentata anche dall'analisi attenta dei grandi della mistica medievale, come Meister Eckhart, dagli empiristi come Spinoza, e in un secondo tempo dagli scritti canonici della tradizione buddista (vedi Psicoanalisi e buddismo zen,1960) . Ma si tratta di una tensione «religiosa» non nel senso classico di riferimento a comportamenti cultuali, narrazioni mitiche, norme etiche e salvifiche: la «religione» frommiana è caratterizzata invece da un rispetto devoto e fervido per l'essere «uomo»: per le sue potenzialità, la sua creatività, le sue risorse, le sue capacità, ossia per tutto quello che dovrebbe permettergli di vincere le parti negative, le parti cattive, quelle anti-umane che pure egli coltiva dentro di sé. In questi termini si può definire di natura religiosa la passione per l'uomo che in Fuga dalla libertà (1963) lo induce a interrogarsi sul più clamoroso paradosso della modernità: l'uomo è libero ma sceglie la schiavitù! Oltre a sottoporre a critica l'età borghese, Fromm si impegna anche nel tentativo di indicare le linee di comportamento capaci di orientare l'uomo verso fini positivi che rafforzino democraticamente la convivenza civile. E' questo l'intento perseguito in L'arte d'amare (1963), dal quale affiora una concezione particolare dell'amore, inteso non solamente come attrazione sessuale, ma come atteggiamento attivo e costruttivo che implica l'occuparsi intensamente e affettuosamente dell'altro. L'amore come valore, insomma, da coltivare coscientemente affrancandosi sempre più dalle tentazioni a cui ci sottopone il nostro narcisismo. E' questa una teoria che discende da una concezione positiva della natura umana, ribadita in un altro testo chiave, Anatomia della distruttività umana (1973). Qui Fromm polemizza con Konrad Lorenz e con coloro che ritengono che l'uomo sia aggressivo per natura: l'aggressività distruttiva è sì prettamente intra-specifica ma non è un prodotto dell'istinto bensì dell'organizzazione sociale. Attraverso un'analisi che tiene conto delle scoperte sull'aggressione accumulate dagli studi di neurofisiologia, antropologia, psicologia animale, paleontologia, nonché della sua particolare interpretazione della teoria psicoanalitica, Fromm tenta di liberare il concetto di distruttività da quei fondamenti naturali e biologici che le principali scuole ritengono assoluti. E dimostra, invece, come vi siano fatti culturali, convenzionali, politici, e più genericamente storico-sociali a condizionare i cosiddetti «istinti sadici» dell'uomo. In Avere o essere? (1976) Fromm esprime la sua critica senza veli al mondo contemporaneo, una società improntata interamente alle modalità distruttive dell' «avere» anziché a quelle proficue dell' «essere». Ed è al culto dell'avere, del possesso - che, ricordiamo, per Fromm è una forma di sadismo - che egli ricollega i gravi fatti che hanno determinato la decadenza della nostra civiltà, terrorismo compreso. Tuttavia il messaggio che emerge da questa cruda analisi è tutt'altro che disarmante: Fromm ha la certezza che, pur essendo in crisi, l'uomo riuscirà a sopravvivere e vi riuscirà perché la pulsione alla vita appartiene al nostro codice genetico. Libertà e psicopatologia«La storia sociale dell'uomo è cominciata nel momento in cui egli, emergendo da uno stato di unità con il mondo naturale, è diventato consapevole di se stesso come entità separata dalla natura circostante e dagli altri uomini. (…) L'uomo stesso è la più importante creazione e conquista dello sforzo continuo dell'umanità, la cui narrazione chiamiamo storia. (…) La libertà caratterizza l'esistenza umana come tale; la storia dell'uomo è la storia della sua libertà» . Così si esprime Fromm in Fuga dalla libertà (1973), dove passa in rassegna gli eventi storico-sociali che hanno segnato il cammino della civiltà a partire dal Medioevo. La storia è storia della conquista della libertà: l'uomo via via si è reso sempre più indipendente dai vincoli che Chiesa prima e Stato poi gli imponevano e le maggiori conquiste della civiltà moderna sono l'individualità e l'irripetibilità della personalità. Ma esiste un problema: la libertà implica solitudine. E l'uomo, una volta sganciatosi dai legami che Chiesa e Stato gli comandavano si ritrova solo e impaurito. Per questo motivo sono nati i regimi totalitari nel periodo Ottocento/Novecento, e, in modo particolare, tra le due guerre mondiali: la paura della libertà ha indotto l'uomo a sottomettersi nuovamente. La sottomissione, però, aumenta l'insicurezza e crea, a propria volta, ostilità e ribellione. Esiste una alternativa, l'unica possibile: il rapporto spontaneo (nel senso di diretto, libero) con gli altri uomini e con la natura (amore e attività produttiva). La storia della civiltà umana è una sorta di ripetizione della storia di un individuo singolo: una volta diventato «individuo» il bambino è solo ad affrontare il mondo in tutti i suoi aspetti pericolosi e soverchianti; sorgono allora impulsi a rinunciare alla propria individualità e a sottomettersi; se questo bambino non troverà la forza di sganciarsi dall'autorità dei propri genitori e a lottare in modo costruttivo per la propria libertà e autoaffermazione diverrà frustrato e probabilmente nevrotico. La libertà da un punto di vista clinico è in qualche modo l'asse portante della psicopatologia di Fromm. Quanto più una persona è «libera» nel senso di capace di autoaffermazione, di rapporti spontanei con le altre persone, di capacità di programmare costruttivamente la propria esistenza nella pienezza delle sue disposizioni caratteriali, tanto più sarà «sana» psicologicamente. Invece, quanto più sarà «attaccata» in maniera castrante a figure parentali che le impediscono di crescere e diventare autonoma, tanto più sarà «malata» psicologicamente. E questo lo vediamo in maniera molto netta nella pratica clinica: lo psicotico è colui che vive in una dimensione personalissima e irreale, sempre unita a doppio legame (sia in modo reale che illusorio) con le figure parentali di riferimento. Se riuscisse a svincolarsi da questi paletti, da questa prigione che lo tiene bloccato ad una dimensione evolutiva arcaica, se riuscisse a guadagnare la propria libertà, allora si muoverebbe verso un equilibrio mentale sano. Insomma per Fromm vale l'equazione: sano = autonomo = libero; come pure l'equazione: non sano = sottomesso = prigioniero. Da ciò scaturisce una conseguenza: le società totalitarie che impongono sottomissione, servilismo, sudditanza, produrranno individui malati, alienati; mentre società democratiche, libertarie, che orientano le istituzioni verso l' «uomo» si troveranno ad avere persone più equilibrate e sane. Lo stesso identico discorso vale per le famiglie infatti la maggior parte delle psicopatologie gravi sono in qualche modo «ereditate» dalla famiglia d'origine.
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