una intervista ad Erich Fromm
Fromm descrive con semplicità e chiarezza la distinzione tra modalità dell'essere e modalità dell'avere, tra religiosità e religione, tra vita e pseudo-vita, nella cornice di una critica radicale alla cultura del possesso.
(a cura di Giovanna Maria Pace,
pubblicata su "La Repubblica" del 26/06/1977)
Locarno - In un appartamento di Muralto invaso dalla chiara luce del lago e dal frastuono della sottostante ferrovia, Erich Fromm, massimo esponente del pensiero post-freudiano, trascorre la sua quarta età sfornando un libro dopo l’altro. Settantasettenne, da qualche anno ha lasciato l’insegnamento all’Università del Messico ma non la penna. In Italia ha appena dato alle stampe Avere o essere? (Mondadori, pagine 300, lire 4000), già esaurito nella prima edizione, mentre sta per completare un nuovo saggio su Freud, maestro adorato ed esecrato a un tempo. Nel saggio, Fromm si propone di separare, nel pensiero del grande Sigmund, quanto c’è di geniale e imperituro da quanto risulta limitato e caduco. Secondo Fromm, il fondatore della psicoanalisi non fu immune dai pregiudizi borghesi della Vienna inizio secolo e dal tabù della famiglia patriarcale e maschilista dalla quale proveniva.
Dopo aver spiegato in L’arte d' amare come l’amore non sia affatto quella pratica istintiva ed elementare che si crede, ma un esercizio di intelligenza, di pazienza e anche di fede, Fromm sostiene in Avere o essere? che la società capitalista è ormai alla fine, schiacciata dal peso di un errore fondamentale dal quale tutte le altre calamità derivano: l’errore di avere anteposto alla modalità esistenziale dell’essere - basata sull’amore, la gioia di vivere, la povertà di spirito intesa nel senso di Maestro Eckhart - la modalità dell’avere, basata sul possesso degli oggetti materiali, sull’egoismo, sulla violenza. Il terrorismo, il tracollo economico, la rovina ecologica, nascono tutti, secondo Fromm, dal culto dell’avere e dall’oblio dell’essere.
Per Fromm non c’è sostanziale differenza tra l’industrialismo capitalistico del mondo occidentale e l’industrialismo burocratico del mondo socialista: entrambi sono costruiti sul principio del possesso, entrambi ritengono di rendere felice il cittadino facendone un sempre più forte e insaziabile consumatore. La critica al sistema capitalista che occupa la prima parte di Avere o essere? ricorda quella "sessantottista" di Herbert Marcuse, col quale Fromm condivise la creativa esperienza dell’Istitut für social Forschung di Francoforte e quindi l’esilio negli Stati Uniti.
Intervista:
D.: Professor Fromm, quale influenza ha avuto sul suo pensiero la cultura americana?
R.: "E’ impossibile dirlo in poche parole, per esempio ho imparato ad apprezzare
la chiarezza di quegli studiosi. Noi tedeschi amiamo le parole ambigue, le assonanze
verbali fini a se stesse, i concetti fumosi. Gli intellettuali anglosassoni sono
più trasparenti...".
D.: Se dovesse darsi un’etichetta ideologica, quale sceglierebbe?
R.: "Mi definirei un marxista, che significa anche un umanista, senza altri aggettivi".
D.: Ma in Avere o essere? lei sostiene che per raggiungere la modalità
dell’essere l’uomo ha bisogno di una religione. Marx diceva invece che la religione
è l’oppio dei popoli...
R.: "Questa frase marxiana, ripetuta fino alla noia, è male interpretata. In realtà
Marx era un uomo molto religioso. Non nel senso convenzionale, s’intende. E infatti
se la prendeva con le religioni istituzionalizzate, che hanno la funzione di anestetizzare
gli uomini affinchè non si accorgano dell’ingiustizia di cui sono vittime.
La religione organizzata è in sostanza una mistificazione, un mezzo per nascondere
l’iniquità del sistema sociale. Se i principi cristiani dell’amore, dell’uguaglianza,
della libertà fossero veramente praticati invece che soltanto predicati,
non ci sarebbe bisogno di un’istituzione speciale (la Chiesa, appunto) che di quei
principi si prende cura. Per Marx, è la società socialista che realizza in concreto i
principi religiosi. Ma non in forma di religione, che è per l’appunto inutile in una
società intrinsecamente religiosa come quella socialista".
D.: Una religiosità laica, immanente.
R.: "Certo. Per Marx ciò che conta è l’uomo, l’uomo è lo scopo di tutto: oggi lo scopo
sono gli oggetti, il profitto, e l’uomo soltanto un mezzo per raggiungerli. In quanto individuo
autenticamente religioso, Marx non poteva che essere contrario alla religione
ufficiale".
D.: Uno dei punti nei quali il suo pensiero diverge più profondamente da quello di
Sigmund Freud è la teoria dei sogni. In cosa consiste la divergenza?
R.: "Freud assume che ogni sogno rappresenti la soddisfazione di un desiderio e,
in ultima analisi, di un desiderio sessuale che trova radici nell’infanzia. Ciò rende
l’interpretazione dei sogni estremamente semplice: si tratta in sostanza di scoprire
quale inconscio desiderio, distorto ma riconoscibile, si nasconda nel sogno.
Per me, invece, il sogno è il complesso dei pensieri e delle sensazioni che l’uomo
ha quando dorme, uno stato mentale relativamente esente dal rumore di fondo
che proviene dalla società".
D.: Ma molti studiosi del sogno, da Platone a Freud, ritengono che il dormiente,
privato del contatto col mondo esterno, regredisca temporaneamente a uno stato
mentale animalesco. In questo senso, il sogno sarebbe l’espressione dei nostri
impulsi più irrazionali e primitivi.
R.: "Paradossalmente, nei sogni siamo certamente meno ragionevoli e meno decenti
che da svegli, ma nello stesso tempo siamo più intelligenti, più saggi, più
capaci di giudizio che da svegli. Il fatto è che la cultura non ha solo effetti positivi
sulle nostre funzioni intellettuali e morali ma anche negativi. L’uomo moderno è
assalito da ogni parte e quasi senza interruzione dal rumore - della radio, della
televisione, dei titoli, dei giornali, della pubblicità e del cinema - di cui la più gran
parte, lungi dall’illuminare la mente, la ottunde e stoltifica".
D.:Come si può dunque stabilire se il sogno è espressione del meglio o del peggio
che è in noi?
R.: "Non è possibile stabilirlo in astratto. Ma caso per caso. Le racconterò in proposito
l’episodio di un mio paziente (Fromm ha alle spalle una lunga pratica della
psicoanalisi, n.d.r.) che, dopo avere incontrato un personaggio da tutti ritenuto influente
e benefico, lo ha rivisto in sogno nelle vesti dello strozzino. Come interpretare
il sogno? Forse il mio paziente era invidioso della fama del personaggio?
O invece nel sogno era riuscito a coglierne la vera identità? In successive sedute
e con l’aiuto di altre testimonianze riuscii a determinare che quest’ultima era la
vera interpretazione. Da sveglio, il rumore della pubblica opinione aveva impedito
al paziente di cogliere la verità. Il sogno è un atto altamente creativo, scritto nel
linguaggio universale del simbolismo, e solo secondariamente la censura ne distorce
quelle parti che il soggetto rifiuta di accettare anche nel sonno. E’ proprio
nel discriminare cosa nel sogno sia scritto in chiaro e cosa sia distorto che consiste
la difficile arte di interpretare i sogni".
D.: Torniamo a noi. In Avere o essere? lei dice che ciascuno di noi deve cercare
di vivere secondo la modalità dell’essere. Durante la sua vita, ha conosciuto persone
che siano approdate all’essere?
R.: "Si".
D.: Può nominarle?
R.: "Ricorderei persone come Marx, Papa Giovanni, Rosa Luxemburg. Ma naturalmente
è difficile trovare biofili cioè amanti della vita tra coloro che hanno raggiunto
il potere perché il potere si ottiene di solito non con l’amore bensì con la
forza e l’astuzia. Sono sicuro che i biofili si trovano soprattutto tra coloro che non
hanno conquistato il potere nè una elevata posizione".
D.: E gli intellettuali?
R.: "Gli intellettuali sono ostacolati, sulla strada dell’essere, dal loro narcisismo. I
politici, dal loro egoismo (fatta eccezione per qualcuno, come Giovanni XXIII).
Come vede, l’elenco si esaurisce subito. Del resto, una leggenda ebraica dice
che il mondo riposa su trentasei uomini giusti: soltanto trentasei".
D.: E lei, professore, ha raggiunto la modalità esistenziale dell’essere?
R.: "Certamente no. E’ il mio scopo ma soltanto nel senso che voglio indicare una
direzione. In quale punto del cammino cesserò di vivere non è poi così importante
per me, purchè avessi la certezza di muovermi nella giusta direzione".
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